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Ospite: Andrea Monda / Argomento: Libri
Il Centro Culturale “Amici del Timone” di Staggia Senese ha avuto il piacere di ospitare il 27 marzo 2009 Andrea Monda, professore e giornalista, tiene corsi su “religione e letteratura” presso l’Università Gregoriana e l’Università Lateranense a Roma e collabora con vari quotidiani tra cui l’Osservatore Romano e il Foglio.
Ha presentato il suo ultimo libro “L’anello e la croce, significato teologico del Signore degli Anelli” pubblicato nel 2008.
“Il Signore degli Anelli è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica” scrive Tolkien nella lettera del 2 dicembre 1953 a padre Robert Murray: notizia per nulla sorprendente se si considera appunto la vita del suo autore, plasmata da una profonda fede ereditata dalla madre, convertita dalla religione protestante della sua famiglia d’origine - il padre di Mabel, educato in una scuola metodista era poi diventato unitariano - al cattolicesimo, scelta che pagò con la vita, essendo stata ripudiata e abbandonata alla miseria con disprezzo dai suoi. Questa è la giusta lente con la quale osservare e comprendere tutta l’opera di JRR e il suo capolavoro in primis, come giustamente ha fatto notare Andrea Monda.
Guardando alla biografia di Tolkien si nota come la sua opera completa, e non solo Il Signore degli anelli, sia un inno alla Grazia con rimandi continui alla Sacra Scrittura. Bisogna soffermarsi a lungo sull’intreccio tra biografia e bibliografia. Fin dall’inizio il pensiero fondamentale di Tolkien sul senso della vita e della scrittura è il famoso concetto della subcreazione, che vede l’uomo accanto a Dio nell’opera di formazione della realtà, evidentemente con dei distinguo: il subcreato dell’uomo è il mondo dei miti, delle vicende che rimandano a messaggi completi. Se Dio, “scrivendo” la Bibbia ha dato vita a quegli eventi che narrava - la Parola si è fatta carne! - l’uomo può solo “creare” mondi che rimangono prigionieri della scrittura. Questo è, secondo il relatore, il contributo che l’uomo può offrire al Dio nell’opera di creazione.
Tolkien si può paragonare al nostro Manzoni, mettendone in evidenza i numerosi elementi in comune, ma pure si può accostare lo scrittore inglese a Dante: entrambi hanno inteso conferire il senso anagogico al loro lavoro: non simbolo, ma esperienza vera che rimanda ad altri significati o eventi. Non dunque una fiaba o un’opera simbolica è quella di Tolkien, né una parodia o ancora peggio una allegoria. Ma una creazione che rimanda ad altro, così come lo è la Divina Commedia nelle intenzioni di Dante: il fiorentino lo illustra chiaramente nella ben nota lettera a Cangrande della Scala.
Soffermiamoci ora sulla più nota delle opere di Tolkien, riportata all’attenzione generale dall’evento cinematografico. Se le vicende della trilogia potrebbero essere riassunte dagli ultimi due versi del Padre Nostro, il sugo di tutta la storia può essere espresso citando la conclusione della liturgia della parola della Messa in onore di Sant’Agnese - 21 gennaio - che recita: “O Dio onnipotente ed eterno (che) scegli le creature più miti e più deboli per confondere la potenza del mondo”. In questa frase è racchiuso il messaggio di Tolkien: la fiducia illimitata nel Dio cattolico e nel Suo progetto sulla storia, l’esaltazione degli umili, la “follia” che, come esclama Gandalf durante il consiglio di Elrond, sarà “il manto agli occhi del nemico” così da confondere la potenza del mondo. Parole simili, queste ultime, a quelle contenute nel Magnificat: “ha esaltato l’umiltà della Sua serva... ha rovesciato i potenti dai troni... ha innalzato gli umili”.
Umili e fragili: questa sembra essere la fondamentale e decisiva differenza tra il pregevole universo tolkieniano e il divertente, ma anche superficiale mondo di Harry Potter, dove i buoni sono splendidamente buoni e i cattivi perversamente cattivi. Spaccatura manichea pressoché assente nell’opera di Tolkien dove tutti, persino Gollum, possono riscattarsi e dove tutti, persino Frodo, persino Aragorn, persino Gandalf, sono costantemente tentati e non necessariamente capaci di superare la tentazione. Solo gli orchi, scimmie di uomini creati dal fango, e gli emissari di Sauron sono presentati come impermeabili alla salvezza: come peraltro i demoni e satana, secondo quanto scrive il Catechismo della Chiesa Cattolica.
Tutto Il Signore degli Anelli è pervaso dal senso della fragilità umana che solo in Dio trova compimento e appoggio. In effetti, il tratto saliente di questo romanzo, come di tutto ciò che ha scritto Tolkien, è la rinuncia. La vittoria sul male è possibile solo rinunciando, con libertà, a qualche cosa di caro. Se è ben noto che è proprio la rinuncia all’anello a salvare la Terra di Mezzo, sono molti altri gli esempi di questa rinuncia presenti nel testo, che si apre proprio con la rinuncia di Bilbo al suo prezioso tesoro che Gandalf affiderà a Frodo. Lo stesso Frodo rinuncia alla vita tranquilla per farsi carico di condurre a termine una missione preclusa agli eroi “istituzionali” Aragorn e Gandalf. Gandalf prima e Galadriel poi rinunciano al possesso dell’anello ingenuamente offerto loro da Frodo, superando la prova (e Tolkien utilizza in entrambi i casi questo vocabolo) come Cristo nel deserto sconfigge il diavolo che gli offre il possesso di tutti i regni della Terra.
Il professor Monda ha poi portato l’attenzione su altri argomenti che trovano la loro radice nelle Scritture e nella fede cattolica. C’è bisogno di mettersi alla ricerca della subcreazione tolkieniana legata alla fonte principale della creazione: la Sacre Scritture.
Che sono infatti evocate di continuo e costituiscono una colonna sonora costante, lieve e ineludibile del testo, a cominciare dalla famosa frase di San Paolo: “Tutto concorre al bene di coloro che amano Dio” (Rm 8, 28). Così infatti accade nel libro. Situazioni che paiono tragiche, estremamente negative, si dimostrano invece preziose per produrre il bene: se Gandalf il grigio non “morisse” a Moria, non potrebbe rinascere come Gandalf il bianco (e qui riecheggia anche la parola di Gesù: “se il chicco di grano non muore...” Gv, 12,24).
Senza l’attacco di follia che colpisce Boromir e lo spinge a strappare l’anello a Frodo e senza l’assalto degli orchi la compagnia non si scioglierebbe e l’anello non “andrebbe a est”. Se Pipino e Merry non fossero rapiti dagli orchi non risveglierebbero la foresta di Fangor e gli ent. Se Gollum non fosse fuggito agli elfi e non avesse tradito gli hobbit, l’Anello non sarebbe stato gettato nella fornace ardente.
La figura del vero protagonista della vicenda, Frodo, è poi ritagliata sulla figura del Santo: un intreccio tra Abramo, pronto a lasciare tutto, la casa, la ricchezza, la posizione, per andare nell’abominio della desolazione; Mosé, il profeta che si sente inadeguato per il compito affidatogli; e lo stesso Gesù, del quale condivide la profonda umiltà e la forte volontà di portare a termine il compito affidatogli a costo della vita. Frodo ha risposto ad una chiamata sebbene avesse voluto evitarla e non sapesse nulla in fatto di armi e guerre. E una volta “chiamato” non si tira più indietro.
Interessante anche il fatto che Moria, il regno dei nani ormai controllato dagli orchi che la Compagnia dell’Anello attraversa nel primo libro, ha preso il nome dal monte sul quale Abramo viene inviato a sacrificare Isacco. Moria infatti è il luogo sul quale verrà costruita, secoli dopo la vicenda di Abramo ed Isacco, la città di Ieru-Salem, il cui Re al tempo del patriarca è quel famoso Melkisedek, re appunto di Salem. Uno dei colli di Moria è il Calvario, dove un altro sacrificio verrà officiato: quello di Nostro Signore. Ebbene è proprio in Moria che Gandalf muore per poi risorgere: un caso? Probabilmente no. Una indicazione piuttosto, e molto marcata, che rimanda al vero senso del sacrificio.
Anche la comunione dei santi è presente nel libro: è la pietà che Bilbo ha mostrato in passato verso Gollum, che nonostante appaia tutto corroso dal male, gli ispira compassione a permettere che la missione giunga a compimento. Gli sforzi che i personaggi compiono nella loro battaglia con le forze di Sauron sospingono Frodo aiutandolo a reggere il peso dell’Anello che aumenta man mano che si avvicina a Monte Fato. Palese è il messaggio di come il male corrompa con la sua vicinanza: l’anello, che ben rappresenta il peccato, corrode tutti coloro che ne vengono a contatto: non solo Gollum, che lo ha custodito a lungo, è ridotto ad una scimmia di ciò che era in origine, ma gli stessi Bilbo e Frodo subiscono gli attacchi dell’Unico e sopravvivono solo in funzione di uno sforzo di volontà libera. Frodo almeno fino a quando non sarà così piagato dall’anello da perdere, con la ragione, anche la capacità di intendere e di volere nel momento in cui si trova a poter gettare nella voragine di Monte Fato il “suo tesoro”. L’anello è capace di scatenare le tre concupiscenze di San Paolo: concupiscenza degli occhi, concupiscenza della carne e superbia di vita. Lo si nota in particolare nella vicenda di Boromir: il suo desiderio morboso di impossessarsi dell’anello lo spinge ad aggredire Frodo pronunciando parole che si possono collegare direttamente alle tre concupiscenze sopra citate.
Lo sguardo capace di svelare i pensieri del cuore, che Galadriel, la dama di Lothlorien che può far pensare ad una icona della Madonna, rimanda allo sguardo di Gesù che, come la Parola, penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla, e discerne i pensieri e gli intenti del cuore (Eb, 4,12).
La parabola dei talenti riecheggia in questo splendido dialogo tra Frodo e Gandalf: “Avrei tanto desiderato che tutto ciò non fosse accaduto ai miei giorni!”, esclamò Frodo. “Anch’io”, annuì Gandalf, “come d’altronde tutti coloro che vivono questi avvenimenti. Ma non tocca a noi scegliere. Tutto ciò che possiamo decidere è come disporre del tempo che ci è dato”. Dialogo che rimanda anche a questa affermazione di San José Maria tratta da Amici di Dio (212): “L’importante è fare buon uso del tempo, che ci sfugge dalle mani e che, per chi ha criterio cristiano, vale più dell’oro, perché rappresenta un anticipo della gloria che Dio ci concederà”.
La Grazia è presente in ogni pagina del romanzo e si svela proprio al momento decisivo: nessuno può arrogarsi il merito di avere salvato la Terra di Mezzo anche se tutti hanno offerto il loro contributo: tutti i protagonisti dell’opera portano i loro pani e pesci, ma nessuno di loro può moltiplicarli. E’ la Grazia, che si è servita di hobbit e uomini, come di elfi e nani, che si è alimentata della pietà di Bilbo e della misericordia di Frodo, dell’eroismo di Sam e della caparbietà di Aragorn, a giocare l’ultima carta.
PER APPROFONDIRE
Colin Duriez, Tolkien e il Signore degli Anelli - Guida alla Terra di Mezzo, Gribaudi.
Paolo Gulisano, Tolkien: il mito e la grazia, Ancora.
Irène Fernandez, La spiritualità del Signore degli Anelli, Elledici.
Andrea Monda, L'anello e la croce, Rubbettino Editore.
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